Caso Bianzino, il tempo di agire e di ricordare


Da Fuoriluogo, di Patti Cirino – 26 ottobre 2008

Se raccontare è resistere,
prendere posizione, mantenere viva la memoria collettiva, è tempo di
agire e di ricordare Aldo Bianzino, 43 anni, ebanista, residente a
Pietralunga, in Umbria: entrato in perfetto stato di salute nel carcere
perugino di Capanne il 12 ottobre 2007 e trovato senza vita nella cella
n. 20, sezione 2B il 14 ottobre 2007.
Il pm Petrazzini, sulla base
della perizia autoptica (lacerazione traumatica del fegato per una
lesione emorragica subpiale, ritenuta anch’essa di tipo traumatico) e
dei risultati forniti, apre un procedimento per omicidio volontario ad
opera di ignoti e un secondo fascicolo nei confronti di Gianluca
Caldoro, assistente della penitenziaria, per omissione di soccorso e
omissione di atti d’ufficio. Ma le ricerche si esauriscono con
l’acquisizione dei filmati estratti dalle videocamere interne
dell’istituto di pena e l’assunzione di sommarie informazioni da
detenuti, agenti e personale sanitario dell’istituto.
Se raccontare
è resistere, è tempo di resistere a indagini inquinate, manipolazioni
d’informazione, istruttorie lacunose frutto di conflitti d’interesse
(l’attività investigativa viene anche svolta da appartenenti alla
polizia penitenziaria in servizio a Perugia), tentativi di
insabbiamento, richieste di archiviazione perché «il fatto non
sussiste». La morte, secondo la perizia medico-legale, è stata
provocata dalla rottura di un aneurisma cerebrale: la lesione epatica
definita «estranea all’evento letale», il decesso attribuito a cause
naturali, escludendo l’esistenza di aggressioni nei confronti della
vittima.

È tempo allora di ricostruire un percorso di dubbi
e interrogativi non ancora sciolti, evidenziare tutte le contraddizioni
del caso, disporre nuove linee di indagine sulla identificazione degli
autori del trauma e ottenere verità e giustizia per Aldo.
La
resistenza è azione, è inchiesta, è ricerca, come quella del medico
legale dei familiari di Aldo, che nella sua perizia sostiene: «la
lacerazione epatica deve essere ritenuta conseguenza di un valido
trauma occorso in vita, non ascrivibile al massaggio cardiaco, in
riferimento al quale vi è prova certa che avvenne a cuore fermo»,
ipotizzando l’omicidio volontario. L’esistenza di un nesso tra la
lesione al fegato e la morte, quanto meno in termini di concausa,
esclude che il trauma al fegato sia stato provocato da massaggio
cardiaco o da altre cause, che comunque vengono negate anche dalla
stessa relazione dei consulenti del Pubblico ministero.
In base a
queste argomentazioni i familiari, il comitato e il pool di avvocati
(Di Natale, Donati, Zaganelli) si sono opposti alla richiesta di
archiviazione e il 17 ottobre sono stati ascoltati dal gip Massimo
Ricciarelli all’udienza preliminare in cui sono stati evidenziati tutti
gli elementi investigativi e le circostanze anomale da approfondire (la
posizione del corpo sulla branda, l’essere nudo in periodo autunnale,
il trasferimento del corpo fuori dalla cella e la sua deposizione
davanti la porta chiusa dell’infermeria; le dichiarazioni dei
testimoni, dei medici di turno, l’analisi dei filmati delle telecamere
a circuito chiuso).

È tempo di reclamare l’iscrizione nel
registro degli indagati del personale in servizio nella sezione del
carcere di Capanne, di generare nuove forme di agire politico perché
sia fatta giustizia per Aldo. Denunciare chi umilia le persone sotto
custodia, chi infligge sofferenze fisiche e psichiche ai detenuti, chi
uccide. Non permettere che motivazioni «assertive e generiche» possano
innescare processi di oblio e costruire così impunità di comodo.
Patti Cirino

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