LE ‘IENE’ IN TRIBUNALE MA PER CASO BIANZINO
Scritto da veritaperaldo in Rassegna Stampa il 04/10/2008
LE ‘IENE’ IN TRIBUNALE MA PER CASO BIANZINO
Anche le ‘Iene’ a Perugia per il caso Meredith Kercher. Una
troupe della trasmissione televisiva condotta da Ilary Blasi,
fin da questa mattina staziona davanti al Palazzo di Giustizia
di Perugia sollecitando passanti e i tanti giornalisti che
stanno seguendo l’udienza preliminare per l’omicidio di ‘Mez’ a
"non dimenticare il caso Bianzino". Aldo Bianzino, falegname
44enne, e’ stato trovato morto il 14 ottobre 2007 nella cella
n. 20 della sezione 2B del carcere perugino di Capanne. Li’ era
detenuto perche’ i Carabinieri di Citta’ di Castello avevano
trovato nell’orto della sua abitazione a Pietralunga una
coltivazione di cannabis. All’epoca si sostenne che le cause
della morte erano dovute alle percosse subite durante
l’interrogatorio, circostanza in parte confermata anche
dall’autopsia e furno ascoltati i comandanti e le guardie
carcerarie in servizio. La Procura perugina (Pm Giuseppe
Petrazzini) ha aperto un fascicolo per omicidio volontario.
(AGI) – Perugia, 26 set. –
IL GIP ACCOGLIE L’OPPOSIZIONE ALL’ARCHIVIAZIONE
Scritto da veritaperaldo in Rassegna Stampa il 11/08/2008
INCHIESTA LACUNOSA, LE RAGIONI DEI FAMIGLIARI DI BIANZINO
Emanuele Giordana
Domenica 3 Agosto 2008
Come morì Aldo Bianzino, l’ebanista di Pietralunga entrato in perfetto
stato di salute in carcere il 12 ottobre dell’anno scorso e uscito
senza vita dalla casa circondariale di Perugia due giorni dopo? La
domanda, cui la richiesta di archiviazione del Pm Giuseppe Pietrazzini,
sembrava aver dato una risposta definitiva con la richiesta di
archiviazione, rimbalza adesso nuovamente su una vicenda sin
dall’inizio apparsa oscura e piena di misteri. Il Gip Massimo
Ricciarelli, cui diverso tempo fa’ i famigliari presentarono
opposizione in sede civile, ha deciso di accogliere adesso anche
l’opposizione alla richiesta di archiviazione presentata in luglio
dall’avvocato dei genitori di Aldo – Giuseppe e Maura – e di Roberta
Radici, la compagna di Bianzino con lui arrestata e poi rilasciata
senza che nemmeno le fosse stato detto, se non all’uscita dal carcere,
che Aldo era morto.
Si deve alla caparbietà dei famigliari dunque se il caso non si chiude
in uno scaffale degli uffici giudiziari perugini e se le eccezioni
sollevate dal legale, l’avvocato Massimo Zaganelli, ricostruiscono un
percorso di dubbi e interrogativi non ancora sciolti che il magistrato
ha evidentemente considerato validi, quantomeno a non far diventare la
storia di Aldo un semplice faldone di carte polverose. La ricostruzione
della parte civile mette in fila tutte le contraddizioni di quelle
terribili ore a cominciare dalla mattina di domenica 14 ottobre quando
Aldo è rinvenuto, inanimato, sulla branda superiore del suo letto. I
suoi indumenti si trovano, ordinati, su quella inferiore. La finestra
della cella è aperta seppure sia ottobre inoltrato e Aldo indossi solo
una maglietta a maniche corte. Per il resto è nudo. Il corpo viene
prelevato dagli agenti, trasportato subito fuori della cella e deposto
sul pavimento del corridoio dell’infermeria, sita a pochi metri. Viene
innalzato un lenzuolo così che gli altri detenuti nulla possono vedere.
Si tenta la rianimazione, effettuando il massaggio cardiaco sul corpo
inanimato. Uno dei medici dirà che “… non so spiegarmi per quale motivo
il detenuto sia stato portato sul pianerottolo davanti alla porta
dell’infermeria ancora chiusa poiché (in altri casi) il nostro
intervento avveniva direttamente in cella”.
Le indagini riveleranno “…lesioni viscerali di indubbia natura
traumatica (lacerazione del fegato) e a livello cerebrale una vasta
soffusione emorragica subpiale, ritenuta al momento di origine
parimenti traumatica…”. Ma poi le ricerche si esauriscono con
l’acquisizione dei filmati estratti dalle videocamere dell’istituto di
pena mentre viene aperto procedimento penale nei confronti di una
guardia per omissione di soccorso. La richiesta di archiviazione per il
reato di omicidio viene formulata dal Pm nel febbraio scorso con la
conclusione che Aldo è morto non per trauma ma per un aneurisma
cerebrale; la lesione epatica viene ritenuta estranea all’evento letale
facendo eslcudere “… l’esistenza di aggressioni del Bianzino”.
Motivazioni “assertive e generiche” che, secondo i legali della
famiglia, sono “insostenibili” e frutto di un’“istruttoria lacunosa”.
Valga per tutto una perizia medico legale secondo cui “…la
lacerazione epatica deve essere ritenuta conseguenza di un valido
trauma occorso in vita e certamente non può essere ascrivibile al
massaggio cardiaco, in riferimento al quale vi è prova certa che
avvenne a cuore fermo”.
Il commento, che Roberta Radici ha affidato al quotidiano “La Nazione”,
è lapidario: “Una scheggia di luce per il mio piccolo Rudra”, il figlio
di Aldo e Roberta rimasto orfano del padre a soli 13 anni. Nessuno in
famiglia si è mai arreso all’archiviazione: non gli altri due figli,
Aruna Prem ed Elia con la madre Gioia (che hanno presentato l’altra
istanza di opposizione), né i genitori e il fratello di Aldo. Il padre,
Giuseppe, domenica scorsa è salito sul palco del Goa Boa, il festival
per i diritti umani organizzato dalla Tavola della pace a Genova: di
fronte a 15 mila persone, convenute anche per il concerto di Manu Chao
e quello di Tonino Carotone, Bianzino ha ricordato il valore anche
civile della difesa dei diritti umani. Aveva rivolto un suo personale
appello al giudice perché non archiviasse il caso. Appello accolto.
http://www.lettera22.it/showart.php?id=9469&rubrica=219
L’uccisione di Riccardo Rasman
Scritto da veritaperaldo in Materiali il 07/07/2008
di Valerio Evangelisti
Le
sue foto sono strazianti. Una specie di bambino troppo cresciuto, con
gli occhi grandi e chiari, ingenui, e un perenne mezzo sorriso sulle
labbra, lo stesso che aveva da piccolo. Un “ragazzone” triestino di 34
anni (pesava 120 chili, era alto 1,85), per testimonianza di tutti mite
e gentile, un po’ goffo, incapace di fare del male. Era afflitto da
“sindrome schizofrenica paranoide”, che lo aveva colpito dopo il
servizio militare nell’aeronautica, e gli scherzi feroci a cui era
stato sottoposto dai commilitoni. Da quel momento nutrì un timore folle
verso chiunque indossasse una divisa. A posteriori, potremmo dire che
aveva ragione.
Era seguito dai servizi psichiatrici, ma viveva solo, tanto si sapeva
che non era pericoloso. Il 27 ottobre 2006 è stato massacrato e fatto
morire da quattro agenti di polizia, tre uomini e una donna. Per
“asfissia da posizione”, come nel caso di Federico Aldrovandi.
Quel giorno, per Riccardo, era di felicità, uno dei rari nella sua
vita. Era stata accolta la sua richiesta per un posto di netturbino,
doveva presentarsi la mattina dopo. Festeggia a modo suo. Accende una
radiolina a tutto volume. Esce nudo sul balcone e lancia, nel cortile
posteriore, un paio di petardi. Si mette a ballare. I vicini
comprensibilmente si spaventano e chiamano la polizia. Arriva una
pattuglia che intima a Riccardo di aprire la porta. Le divise tanto
temute. L’uomo, terrorizzato, rifiuta, si riveste, va a rannicchiarsi
sul letto. La pattuglia, con l’ausilio di due vigili del fuoco,
scardina l’uscio dell’appartamento con un piede di porco.
Riccardo cerca di difendersi, getta a terra la poliziotta. Viene
percosso sul cranio e sul viso con un manico di piccone e con il piede
di porco. I suoi schizzi di sangue imbrattano le pareti della stanza.
Alla fine è imbavagliato, ammanettato, le caviglie legate con del filo
di ferro. E’ coperto di ferite. Gli salgono sul dorso. Lui rantola, non
riesce a respirare. Muore soffocato. Le pareti attorno paiono quelle di
una macelleria.
Chi non ci crede, guardi questo video, parte 1 e parte 2, realizzato da Paolo Bertazza.
Si
apre un processo che sembra volgere all’archiviazione, se non fosse per
un ripensamento del PM, che di recente ha riaperto il caso. La
mobilitazione e la denuncia, malgrado alcune interrogazioni
parlamentari e varie controinchieste sul web, sono scarse, e per lo più
a livello locale. Eppure è l’ennesimo sintomo di una malattia
generalizzata. Come a Genova nel 2001, come nel caso di Federico
Aldrovandi, esponenti delle forze dell’ordine si sentono legittimati,
dall’uniforme che indossano e dalla quasi certezza dell’impunità
(qualcuno ricorderà le centinaia di vittime innocenti della Legge
Reale), a scatenare istinti ferini su chi non si può difendere.
Riccardo Rasman, pieno di paure, vittima tutta la vita, è stato ferito
e ucciso per avere fatto troppo rumore in un attimo di gioia. Di lui
restano a fissarci gli occhi sgranati e il sorriso un po’ incerto, da
bambino buono e timido.
Firma la petizione on line.
Intervista con Giuseppe Bianzino, padre di Aldo Bianzino
Scritto da veritaperaldo in Materiali il 20/06/2008
Aldo Bianzino, 44 anni, viene rinchiuso la sera del 12 ottobre
scorso nel carcere di Capanne a Perugia, per il possesso di alcune
piantine di canapa indiana. Viene trovato senza vita la mattina del 14
ottobre.
Aldo l’ho potuto vedere solo in fotografia; suo padre Giuseppe l’ho
incontrato la prima volta a Lodi, un mese fa. L’ho conosciuto tramite
Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, anche lui deceduto in carcere
l’11 luglio 2003 (sulla sua morte si sono recentemente riaccese
speranze di verità, dopo la riapertura del caso). Quella sera Giuseppe
ha abbracciato anche Haidi Giuliani, e poi Danila Tinelli e Maria
Iannucci, rispettivamente madre di Fausto e sorella di Iaio. Incroci di
destini fatti di dolorose perdite e di mancanza di giustizia, un
affetto e una solidarietà che sorgono spontanei.
Dal confronto con le foto del figlio, risulta chiara la somiglianza fra
Aldo e Giuseppe. Alti, magri, grandi occhiali. Anche caratterialmente
Giuseppe ricorda quel che si racconta dell’indole del figlio.
Mitissimo, ma non per questo meno risoluto nel combattere le
ingiustizie. Nei gesti e nel sorriso i segni di una cordialità e di una
serenità che la tragedia ha incrinato ma non cancellato. "Mio figlio era molto aperto, disposto a parlare con tutti", mi racconta. "Già
da bambino, bastava che qualcuno lo chiamasse e lui gli sorrideva e lo
seguiva. In questo era simile a me, o almeno a come ero una volta. Oggi
sono cambiato. Una volta sorridevo sempre e qualcuno mi chiedeva ‘ma
cos’hai da ridere?’. Io semplicemente sorridevo perché mi sembrava che
la vita mi sorridesse. Oggi sorrido poco, quella domanda non me la
rivolgono più…".
Lo incontro nuovamente nella sua casa di Vercelli. Lui ha voglia di parlare e io di dargli voce.
Tu quando vieni a sapere della morte di Aldo?
Domenica pomeriggio, quando era già morto da alcune ore. Mi ha
telefonato Gioia, la sua prima moglie, madre dei due figli maggiori
(Aruna ed Elia). All’inizio ha chiesto se Aruna era lì da me, poi ha
tergiversato un po’, non sapeva come dirmelo. Prima ha detto che mio
figlio aveva avuto un infarto, solo dopo qualche minuto ha aggiunto che
era morto, ma non mi ha specificato i dettagli, non ha parlato del
carcere, non se la sentiva. In quel momento ha accennato solo a
mancanze nei soccorsi. Mia moglie era in giardino, gliel’ho dovuto
riferire io. Non sai cosa significa dire una cosa del genere a una
madre… Ho cominciato a sapere tutta la storia pochi giorni dopo. Poi,
dopo altro tempo ancora, è stata sempre Gioia a dirmi "adesso devo
raccontarti tutto". Mi ha parlato dell’autopsia, dei 4 ematomi
cerebrali, dei danni al fegato e alla milza. In quel momento si diceva
pure di due costole rotte, circostanza che però sembra essere stata
smentita dall’autopsia successiva. Nel frattempo erano cominciati i
contatti con Roberta, la sua compagna (arrestata assieme a lui e
scarcerata subito dopo la morte di Aldo), e la nostra battaglia comune
per capire cosa fosse successo in quella cella.
Ti sei fatto qualche idea su quanto accaduto?
Ho due ipotesi. Forse i suoi carcerieri pensavano davvero di
trovarsi di fronte a uno spacciatore. Non avendo trovato denaro in casa
di Aldo e Roberta (la perquisizione aveva raccolto solo trenta euro),
hanno pensato avessero nascosto "il malloppo" da qualche parte. Per
questo può darsi l’abbiano malmenato, per farlo confessare. L’altra
ipotesi si basa sull’idiosincrasia di mio figlio verso strutture chiuse
come il carcere. Aldo era molto tranquillo e aperto di carattere, ma
incapace di comportamenti servili e non incline al rispetto delle
gerarchie. In un ambiente chiuso e codificato come dev’essere il
carcere si crea quella subordinazione che pretende ritualità, rispetto
ossequioso verso gli ordini: una realtà impossibile per lui. Magari
questo l’ha portato a qualche reazione e di conseguenza può essere
scattata la voglia di dargli "una lezione".
Cosa puoi dirmi sullo stato delle indagini?
Il magistrato che aveva in mano l’inchiesta era lo stesso che l’ha
fatto arrestare. Un arresto che considero assurdo non solo per
l’assoluta mancanza di pericolosità di persone come Aldo e Roberta, ma
anche perché avvenuto di venerdì pomeriggio, costringendo quindi due
persone a restare in carcere inutilmente per almeno tre giorni. Tutto
questo senza poter vedere un giudice e chiarire la loro posizione, e
per di più lasciando Rudra e la nonna (ossia il figlio quattordicenne
di Aldo e Roberta, e una novantenne in precarie condizioni di salute)
completamente isolati e abbandonati a se stessi. Sulla sua morte è
stata chiesta l’archiviazione, a cui si è opposta tutta la famiglia,
coi rispettivi avvocati. Non so cosa aspettarmi delle indagini, seppure
da ignorante in materia legale ci vedo troppi buchi. Io pensavo che in
un carcere, almeno nei corridoi e nei luoghi di passaggio, ci fosse una
vigilanza costante, anche tramite telecamere, eppure ancora oggi non si
sa chi sia entrato e uscito da quella cella. Prima abbiamo accennato a
incongruenze nelle autopsie e voglio farti un esempio specifico. Le
lesioni al fegato le hanno giustificate con una manovra di rianimazione
maldestra, fatta con imperizia e troppa violenza. Ammesso che si possa
credere a questa versione, è possibile che non si sappia chi ha operato
quel tentativo di soccorso?
Alla fine si sta facendo strada la teoria di una morte per cause
naturali, per rottura aneuristica. Inoltre, si è parlato molto
dell’assenza di lesioni esterne…
L’aneurisma è un elemento di debolezza del sistema circolatorio, che
può starsene tranquillo per anni e poi cedere. Cosa posso dirti?…
Forse per deformazione professionale da vecchio chimico ragiono in
termini pratici, di impianti. Alla Thyssen Krupp l’impianto faceva
schifo, ma è successo qualcosa che l’ha fatto scoppiare. Ecco, anche
volendo credere all’aneurisma, io sono alla ricerca di quel "qualcosa".
Nulla capita per caso. Sulla mancanza di segni esteriori, tu pensi ci
siano lesioni esterne nei prigionieri di Guantanamo? O sui corpi dei
poveracci passati nelle mani di Videla o Pinochet per poi essere
scaricati in mare?
La storia di tuo figlio mi ricorda un panorama in cui la nebbia
prima si dirada e poi si riaddensa. Ci parla di una zona grigia nello
stato dei diritti, favorita dall’intreccio tra retorica securitaria e
guerra al diverso.
In questi tempi si fa un gran parlare di sicurezza, peraltro
cercando di distorcere la scala di importanza dei fatti. Quando si
parla di sicurezza e legalità non si parla dei morti sul lavoro, che
sembrano confinati in un altro pianeta, e neppure dei grandi
truffatori, che non sembrano destare quello che oggi viene chiamato
"allarme sociale". Intendiamoci, capisco che il ladro che ruba la
pensione alla vecchietta che l’ha appena ritirata sia un problema reale
e da affrontare, ma non capisco quale allarme possa essere determinato
da uno che si fa uno spinello. Chi vive alle nostre spalle rubando
miliardi o guadagnandoli in modo poco pulito, al contrario, non è
considerato pericoloso. Tu mi parli di nebbia e di zona d’ombra ed è
corretto; io, al di là del dolore personale, la storia di mio figlio
l’ho vissuta come un’enorme contraddizione. Una contraddizione di
quello che una volta avremmo chiamato "il sistema".
La vicenda di Aldo ti ha creato un’idea in generale del mondo
carcerario? E come è cambiata, se è cambiata, la tua visione della
giustizia?
Cosa penso del carcere? Che è una cosa diversa se ti chiami Geronzi
o Bianzino. Può sembrare banale ma è così, è quel che sento. Quando
oggi leggo di tragedie successe nei CPT, di persone malmenate o morte
"in circostanze misteriose", come si dice, provo la stessa sensazione:
carceri e CPT sono luoghi dove la persona perde i propri diritti. Per
questo è facile che lì dentro certe cose succedano, ed è difficile poi
scoprire la verità. E parlo di due luoghi che a torto si pensa debbano
tutelare solo chi sta fuori da chi vi è imprigionato. E’ falsissimo:
carcere e CPT dovrebbero tutelare pure chi sta dentro. Questo perché
anche chi viene rinchiuso in una di quelle strutture è sotto la tutela
dello Stato. Tutti, ma a maggior ragione quelli che, come Aldo, sono
reclusi senza aver subito una condanna e quindi vanno considerati
innocenti fino all’emissione della sentenza. Del resto ne abbiamo
parlato prima: quando si parla di sicurezza si parla di una sicurezza
monca e ambigua. Le morti in carcere sono tantissime. Non parliamo di
quelle nei CPT, visto che quei poveracci ormai sembrano appartenere a
una categoria subumana. Non parliamo di Carlo Giuliani: per lui hanno
ripristinato la pena di morte, direttamente in piazza. Una volta
avremmo parlato di "giustizia di classe": forse dovremmo avere il
coraggio di dirlo anche oggi…
http://www.reti-invisibili.net/morticarceri/articles/art_13436.html
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