MORIRE DI CARCERE


 

L’EBANISTA TRANQUILLO CHE ASPETTA GIUSTIZIA

di Luca Cardinalini – PERUGIA

44
anni, gandiano. Viveva con la sua famiglia in un casolare in mezzo ai
boschi. viene arrestato nel 2007 per produzione di marjuana. Muore dopo
due giorni in carcere. Gli amici chiedono verità. L’11 dicembre decide
il gip

«La morte in carcere di un detenuto rappresenta
un’evenienza sempre possibile. La morte "di carcere" costituisce invece
uno degli eventi che danno la misura di quanto in uno Stato siano o
meno rispettati i diritti dell’uomo. Ciò spiega perché di fronte alla
morte di un detenuto si impongano verifiche dettagliate e puntuali,
tali da non consentire che permangano margini di dubbio». Lo scrive il
gip del tribunale di Perugia, Massimo Ricciarelli, ordinando ulteriori
indagini riguardo alla morte di Aldo Bianzino, avvenuta il 14 ottobre 2007.
Gandiano, nonviolento, 44 anni, Bianzino
– che il gip stesso chiama «mite personaggio dalla folta barba, dedito
al consumo e alla coltivazione di sostanze stupefacenti» – viene
portato in carcere la sera del 12 ottobre 2007, per possesso e
coltivazione di marijuana. I poliziotti, su richiesta del pm Giuseppe
Petrazzini, trovano un centinaio di piantine nei pressi del casolare,
sui monti vicino Città di Castello (Umbria), dove Aldo vive con la
compagna Roberta, il figlio quattordicenne Rudra e la nonna materna.
Altra ne viene ritrovata nel locale che usa come laboratorio di
falegnameria. Agli agenti dice che Roberta non c’entra nulla con la
storia, ma portano via entrambi.
Aldo arriva al carcere di Perugia
che è già sera. La visita medica non evidenzia alcuna patologia. Viene
sistemato in una cella vuota, da solo, sceglie di sistemarsi nella
brandina superiore di un letto a castello.
Il sabato lo passa quasi
per intero dentro quelle quattro mura. Esce per l’ora d’aria, per un
colloquio con l’avvocato d’ufficio che lo trova «tranquillo». Secondo
alcuni detenuti, per ben due volte si reca in infermeria, anche se
sulla cartella clinica e sul registro ubicazione detenuti, c’è annotata
una sola visita, senza specificazione di orario e motivo.
La notte,
che sarà anche l’ultima della sua vita, per due volte reclama
l’intervento di un medico, si sente male, gli viene risposto che «ci
pensiamo domattina».
E’ lo stesso Gip, a scrivere: «Nel frattempo i detenuti cominciavano a svegliarsi e i due della cella 18 – vicina a quella di Bianzino, ndr – iniziavano ad interloquire con l’assistente della sezione. Dicono di aver chiesto delle condizioni di salute di Bianzino,
venendo redarguiti in malo modo dall’assistente, che intorno alle 8,
prima di cessare il servizio, prelevava dalla cella uno dei due,
Chourabi Tark Ben Mohamed, e lo faceva scendere lungo le scale detenuti
in direzione del piano terra, da dove sarebbe più tardi stato
momentaneamente rinchiuso nella camera di sicurezza, prima di essere
riavviato al reparto, presumibilmente dopo una strigliata da parte
dello stesso addetto alla sorveglianza».
La mattina, al momento della «battitura» del risveglio, gli agenti notano che Bianzino non si muove, ha gli occhi già sbarrati.
Non mancano le stranezze, mai chiarite. A cominciare dall’abbigliamento minimo di Bianzino
il quale, ad eccezione di una polo di cotone blu, a maniche corte e non
di sua proprietà, è completamente nudo. E poi la finestra della cella:
aperta, malgrado la stagione e l’ora. Cella che non verrà mai
sequestrata.
Non solo: i primi soccorsi non vengono prestati
all’interno della cella, come logica e prassi vorrebbero. Gli agenti,
infatti, sollevano di peso Aldo e lo trasportano fin davanti la porta
dell’infermeria, distante pochi metri ma chiusa. Giunti lì, adagiano il
corpo in terra.
Arrivano al reparto due dottoresse che tentano la
rianimazione con un massaggio cardiaco, provano anche con il
defibrillatore, che però non darà mai l’input per procedere
all’erogazione della scarica elettrica, a testimonianza della già ormai
«totale assenza di segni vitali». Quando arrivano i sanitari del 118
non possono che constatare ufficialmente la morte. Sono le 8,30 della
domenica mattina.
In quello stesso momento, al reparto femminile
del carcere di Capanne, anche Roberta è reclusa da quasi quaranta ore.
Di Aldo non sa più niente dal momento dell’arresto, tanto meno dei suoi
sopraggiunti e improvvisi problemi di salute.
Eppure, alle 9,15,
riceve una visita da parte del vicecomandante dell’istituto, in
borghese. Le dice che stava andando a caccia ma che è venuto apposta
per l’emergenza che ci è creata, le chiede con toni decisi di dirgli
«se Aldo soffre di svenimenti, di malattie cardiache o se abbia
ingerito degli ovuli prima di entrare in carcere», poi se ne va. Aldo è
già morto da quasi un’ora.
Alle 11 Roberta viene scarcerata. Nel
corridoio Roberta incontra lo stesso vice ispettore e gli chiede quando
potrà vedere Aldo. La risposta è: «Martedì, dopo l’autopsia».
L’inchiesta
per stabilire le cause della morte viene aperta d’ufficio, a carico di
ignoti. Titolare – combinazione – è lo stesso pm Giuseppe Petrazzini,
che ha portato Aldo in carcere.
L’autopsia, eseguita dal medico
legale nominato dalla procura, Luca Lalli, rileva tra le altre cose una
profonda lesione al fegato, di 3,5 centimetri, «di evidente origine
traumatica». Si parla di arresto cardiaco come causa del decesso. Si
svolgono ulteriori accertamenti, al termine dei quali si arriva a
conclusioni diverse: alla rottura di un aneurisma, conseguenza di «una
patologia silente e asintomatica». Quanto alla lesione al fegato, si
dice essere stata causata da una «fatalità» legata alle manovre
rianimatorie.
Il professor Giuseppe Fortuni, consulente della famiglia Bianzino,
smentisce la ricostruzione, anche alla luce delle oltre 30mila autopsie
fatte nella carriera nelle quali mai ha riscontrato un nesso tra il
massaggio cardiaco (in alto a sinistra) e il fegato (in basso a
destra). La lacerazione è profonda, le pareti sono infarcite di sangue,
«si deduce che la lesione era stata prodotta in vita e non era
riconducibile a pratiche rianimatorie».
I filmati delle videocamere
interne al carcere – riprese di 5 secondi ogni due minuti, per ciascun
settore della casa circondariale – sembrano non evidenziare accessi
«anomali» alla cella. Ma, in linea teorica, soggetti che conoscono il
loro funzionamento possano percorrere con tranquillità i pochi metri
dei corridoi su cui si affacciano le celle, entrarvi e infine uscirne,
approfittando dei tempi morti di registrazioni.
Per due volte viene
presentata richiesta di archiviazione e per due volte viene respinta.
In questa l’unico indagato è un agente di polizia penitenziaria, per
omesso controllo. Intanto se ne sono andati anche Roberta e la sua
anziana madre. Rudra è rimasto solo, con uno zio, nel casolare in mezzo
ai boschi, va a scuola a bordo di un’Ape. Vuole giustizia, anche lui.

 

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  1. #1 di Carla il 29/11/2009 - 7:45 pm

    è semplicemente un orrore, un orrore, un orrore; non vorrei crederci, ma è vero… mi fa schifo questo paese che semplicemente ignora i piÙ elementari principi costituzionali per i cittadini comuni come Aldo Bianzino che si coltivava l’erba da solo, alla faccia dei TRAFFICANTI INTERNAZIONALI DI DROGA CHE SONO LA CAUSA DI UNA DELLE MAGGIORI VIOLENZE AL MONDO; un paese, ma non il solo, che chiude gli occhi davanti a tutti quei potenti che si risucchiano chili di cocaina …Io lo so, vivo in Brasile e ogni giorno assisto agli orrori provocati dal traffico di droga per quei fighetti americani ed europei a cui piace sniffare e sniffare… schifo schifo schifo – mi vergogno di essere italiana.

  2. #2 di paolo il 12/11/2009 - 12:13 pm

    sono veramente senza parole.
    sono in ufficio con le lacrime agli occhi.

    ho appena fatto un piccolo contributo economico.
    niente che possa alleviare questo strazio per rudra e per quanto è successo.

    da sempre e per sempre credo e cerco ogni giorno di oppormi per quanto possibile ad ogni forma di violenza soprattutto se è dello stato.

    se può essere di conforto, rudra e la sua famiglia stanno dalla parte giusta del mondo.
    la parte non violenta.
    un abbraccio,
    paolo

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