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Roberta se ne è andata…

Abbiamo conosciuto Roberta nei giorni successivi alla morte di Aldo, giorni drammatici, durissimi, di intense mobilitazioni.
Abbiamo conosciuto la sua forza d’animo, la sua rabbia, la sua voglia di lottare e il suo desiderio di conoscere la verità.

Una verità insabbiata, nascosta, che non riesce a venire fuori.

Roberta se ne è andata nel silenzio, senza riuscire a conoscerla.

Roberta Radici è la compagna di Aldo Bianzino, il falegname morto misteriosamente nel carcere perugino di Capanne, la notte del 14 ottobre
2007. Aldo, insieme a Roberta, era finito in carcere con l’accusa di possedere e coltivare alcune piante di marijuana e dal quel luogo non è più uscito vivo.

Da allora, insieme a Roberta e suo figlio Rudra, insieme a Gioia (ex moglie di Aldo) e ai figli Elia e Aruna,  come “Comitato Verità
per Aldo”, abbiamo organizzato manifestazioni, iniziative, presidi e volantinaggi affinché si facesse luce su questa vicenda.

Mercoledì 1 luglio alle ore 9.00 presso il Tribunale di Perugia si terrà l’udienza preliminare relativa alla richiesta di rinvio a giudizio della
guardia carceraria in servizio durante quella notte, per il reato di omissione di soccorso.

Oggi che Roberta non c’è più, sentiamo, ancora più forte, l’esigenza di continuare a lottare insieme a Rudra, rimasto solo, e a tutti gli altri
familiari.

Continueremo  insieme.

PERCHE’ IN CARCERE PER UNA PIANTA D’ERBA NON SI DEVE FINIRE
PERCHE’ IN CARCERE NON SI PUO’ MORIRE

COMITATO VERITA’ PER ALDO

5 Commenti

Articolo 7

 

ENG

This video has been carried out for the
60th anniversary of the Universal Declaration of Human Rights and is
part of a series of 30 videos inspired by the articles of the
declaration. Dedicated to article 7: "All are equal before the law and
are entitled without any discrimination to equal protection of the law.
All are entitled to equal protection against any discrimination in
violation of this Declaration and against any incitement to such
discrimination."
The video tells the story of Aldo Bianzino, joiner,
cabinet maker, arrested in central Italy the 12th of october 2007 for
marijuana growing and detention, found dead in prison the day after the
imprisonment in Capanne Jail, Perugia, Italy.

ITA

Video
realizzato in occasione del 60° anniversario della Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani, parte di una serie di 30 cortometraggi
ispirati ai diversi articoli della dichiarazione, dedicato all’articolo
7: "Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna
discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno
diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la
presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale
discriminazione."
Viene narrata la vicenda di Aldo Bianzino,
falegname ebanista arrestato il 12 ottobre 2007 per coltivazione e
detenzione di marijuana, trovato morto la mattina del giorno successivo
alla reclusione nel carcere di Capanne, Perugia.

This movie is part of the collection: Open Source Movies

Producer: Tekla Taidelli
Audio/Visual: sound, color
Language: italiano
Keywords: aldo bianzino; carcere; capanne; perugia; jail; human rights; diritti umani; tekla taidelli

Creative Commons license: Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0

 

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Caso Bianzino, il tempo di agire e di ricordare

Da Fuoriluogo, di Patti Cirino – 26 ottobre 2008

Se raccontare è resistere,
prendere posizione, mantenere viva la memoria collettiva, è tempo di
agire e di ricordare Aldo Bianzino, 43 anni, ebanista, residente a
Pietralunga, in Umbria: entrato in perfetto stato di salute nel carcere
perugino di Capanne il 12 ottobre 2007 e trovato senza vita nella cella
n. 20, sezione 2B il 14 ottobre 2007.
Il pm Petrazzini, sulla base
della perizia autoptica (lacerazione traumatica del fegato per una
lesione emorragica subpiale, ritenuta anch’essa di tipo traumatico) e
dei risultati forniti, apre un procedimento per omicidio volontario ad
opera di ignoti e un secondo fascicolo nei confronti di Gianluca
Caldoro, assistente della penitenziaria, per omissione di soccorso e
omissione di atti d’ufficio. Ma le ricerche si esauriscono con
l’acquisizione dei filmati estratti dalle videocamere interne
dell’istituto di pena e l’assunzione di sommarie informazioni da
detenuti, agenti e personale sanitario dell’istituto.
Se raccontare
è resistere, è tempo di resistere a indagini inquinate, manipolazioni
d’informazione, istruttorie lacunose frutto di conflitti d’interesse
(l’attività investigativa viene anche svolta da appartenenti alla
polizia penitenziaria in servizio a Perugia), tentativi di
insabbiamento, richieste di archiviazione perché «il fatto non
sussiste». La morte, secondo la perizia medico-legale, è stata
provocata dalla rottura di un aneurisma cerebrale: la lesione epatica
definita «estranea all’evento letale», il decesso attribuito a cause
naturali, escludendo l’esistenza di aggressioni nei confronti della
vittima.

È tempo allora di ricostruire un percorso di dubbi
e interrogativi non ancora sciolti, evidenziare tutte le contraddizioni
del caso, disporre nuove linee di indagine sulla identificazione degli
autori del trauma e ottenere verità e giustizia per Aldo.
La
resistenza è azione, è inchiesta, è ricerca, come quella del medico
legale dei familiari di Aldo, che nella sua perizia sostiene: «la
lacerazione epatica deve essere ritenuta conseguenza di un valido
trauma occorso in vita, non ascrivibile al massaggio cardiaco, in
riferimento al quale vi è prova certa che avvenne a cuore fermo»,
ipotizzando l’omicidio volontario. L’esistenza di un nesso tra la
lesione al fegato e la morte, quanto meno in termini di concausa,
esclude che il trauma al fegato sia stato provocato da massaggio
cardiaco o da altre cause, che comunque vengono negate anche dalla
stessa relazione dei consulenti del Pubblico ministero.
In base a
queste argomentazioni i familiari, il comitato e il pool di avvocati
(Di Natale, Donati, Zaganelli) si sono opposti alla richiesta di
archiviazione e il 17 ottobre sono stati ascoltati dal gip Massimo
Ricciarelli all’udienza preliminare in cui sono stati evidenziati tutti
gli elementi investigativi e le circostanze anomale da approfondire (la
posizione del corpo sulla branda, l’essere nudo in periodo autunnale,
il trasferimento del corpo fuori dalla cella e la sua deposizione
davanti la porta chiusa dell’infermeria; le dichiarazioni dei
testimoni, dei medici di turno, l’analisi dei filmati delle telecamere
a circuito chiuso).

È tempo di reclamare l’iscrizione nel
registro degli indagati del personale in servizio nella sezione del
carcere di Capanne, di generare nuove forme di agire politico perché
sia fatta giustizia per Aldo. Denunciare chi umilia le persone sotto
custodia, chi infligge sofferenze fisiche e psichiche ai detenuti, chi
uccide. Non permettere che motivazioni «assertive e generiche» possano
innescare processi di oblio e costruire così impunità di comodo.
Patti Cirino

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L’uccisione di Riccardo Rasman

Pubblichiamo questo articolo comparso su carmillaonline.com sulla un’altra morte sospett: quella di Riccardo Rasman.
Verità per le vittime della violenza di Stato!!
———————-
L’uccisione di Riccardo Rasman

di Valerio Evangelisti

RiccardoRasman.jpgLe
sue foto sono strazianti. Una specie di bambino troppo cresciuto, con
gli occhi grandi e chiari, ingenui, e un perenne mezzo sorriso sulle
labbra, lo stesso che aveva da piccolo. Un “ragazzone” triestino di 34
anni (pesava 120 chili, era alto 1,85), per testimonianza di tutti mite
e gentile, un po’ goffo, incapace di fare del male. Era afflitto da
“sindrome schizofrenica paranoide”, che lo aveva colpito dopo il
servizio militare nell’aeronautica, e gli scherzi feroci a cui era
stato sottoposto dai commilitoni. Da quel momento nutrì un timore folle
verso chiunque indossasse una divisa. A posteriori, potremmo dire che
aveva ragione.
Era seguito dai servizi psichiatrici, ma viveva solo, tanto si sapeva
che non era pericoloso. Il 27 ottobre 2006 è stato massacrato e fatto
morire da quattro agenti di polizia, tre uomini e una donna. Per
“asfissia da posizione”, come nel caso di Federico Aldrovandi.

Quel giorno, per Riccardo, era di felicità, uno dei rari nella sua
vita. Era stata accolta la sua richiesta per un posto di netturbino,
doveva presentarsi la mattina dopo. Festeggia a modo suo. Accende una
radiolina a tutto volume. Esce nudo sul balcone e lancia, nel cortile
posteriore, un paio di petardi. Si mette a ballare. I vicini
comprensibilmente si spaventano e chiamano la polizia. Arriva una
pattuglia che intima a Riccardo di aprire la porta. Le divise tanto
temute. L’uomo, terrorizzato, rifiuta, si riveste, va a rannicchiarsi
sul letto. La pattuglia, con l’ausilio di due vigili del fuoco,
scardina l’uscio dell’appartamento con un piede di porco.
Riccardo cerca di difendersi, getta a terra la poliziotta. Viene
percosso sul cranio e sul viso con un manico di piccone e con il piede
di porco. I suoi schizzi di sangue imbrattano le pareti della stanza.
Alla fine è imbavagliato, ammanettato, le caviglie legate con del filo
di ferro. E’ coperto di ferite. Gli salgono sul dorso. Lui rantola, non
riesce a respirare. Muore soffocato. Le pareti attorno paiono quelle di
una macelleria.
Chi non ci crede, guardi questo video, parte 1 e parte 2, realizzato da Paolo Bertazza.

RiccardoRasman2.jpgSi
apre un processo che sembra volgere all’archiviazione, se non fosse per
un ripensamento del PM, che di recente ha riaperto il caso. La
mobilitazione e la denuncia, malgrado alcune interrogazioni
parlamentari e varie controinchieste sul web, sono scarse, e per lo più
a livello locale. Eppure è l’ennesimo sintomo di una malattia
generalizzata. Come a Genova nel 2001, come nel caso di Federico
Aldrovandi, esponenti delle forze dell’ordine si sentono legittimati,
dall’uniforme che indossano e dalla quasi certezza dell’impunità
(qualcuno ricorderà le centinaia di vittime innocenti della Legge
Reale), a scatenare istinti ferini su chi non si può difendere.
Riccardo Rasman, pieno di paure, vittima tutta la vita, è stato ferito
e ucciso per avere fatto troppo rumore in un attimo di gioia. Di lui
restano a fissarci gli occhi sgranati e il sorriso un po’ incerto, da
bambino buono e timido.

Firma la petizione on line.

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Intervista con Giuseppe Bianzino, padre di Aldo Bianzino

Intervista con Giuseppe Bianzino, padre di Aldo Bianzino
Francesco "baro" Barilli

17 giugno 2008

Aldo Bianzino, 44 anni, viene rinchiuso la sera del 12 ottobre
scorso nel carcere di Capanne a Perugia, per il possesso di alcune
piantine di canapa indiana. Viene trovato senza vita la mattina del 14
ottobre.
Aldo l’ho potuto vedere solo in fotografia; suo padre Giuseppe l’ho
incontrato la prima volta a Lodi, un mese fa. L’ho conosciuto tramite
Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, anche lui deceduto in carcere
l’11 luglio 2003 (sulla sua morte si sono recentemente riaccese
speranze di verità, dopo la riapertura del caso). Quella sera Giuseppe
ha abbracciato anche Haidi Giuliani, e poi Danila Tinelli e Maria
Iannucci, rispettivamente madre di Fausto e sorella di Iaio. Incroci di
destini fatti di dolorose perdite e di mancanza di giustizia, un
affetto e una solidarietà che sorgono spontanei.
Dal confronto con le foto del figlio, risulta chiara la somiglianza fra
Aldo e Giuseppe. Alti, magri, grandi occhiali. Anche caratterialmente
Giuseppe ricorda quel che si racconta dell’indole del figlio.
Mitissimo, ma non per questo meno risoluto nel combattere le
ingiustizie. Nei gesti e nel sorriso i segni di una cordialità e di una
serenità che la tragedia ha incrinato ma non cancellato. "Mio figlio era molto aperto, disposto a parlare con tutti", mi racconta. "Già
da bambino, bastava che qualcuno lo chiamasse e lui gli sorrideva e lo
seguiva. In questo era simile a me, o almeno a come ero una volta. Oggi
sono cambiato. Una volta sorridevo sempre e qualcuno mi chiedeva ‘ma
cos’hai da ridere?’. Io semplicemente sorridevo perché mi sembrava che
la vita mi sorridesse. Oggi sorrido poco, quella domanda non me la
rivolgono più…".

Lo incontro nuovamente nella sua casa di Vercelli. Lui ha voglia di parlare e io di dargli voce.

Tu quando vieni a sapere della morte di Aldo?

Domenica pomeriggio, quando era già morto da alcune ore. Mi ha
telefonato Gioia, la sua prima moglie, madre dei due figli maggiori
(Aruna ed Elia). All’inizio ha chiesto se Aruna era lì da me, poi ha
tergiversato un po’, non sapeva come dirmelo. Prima ha detto che mio
figlio aveva avuto un infarto, solo dopo qualche minuto ha aggiunto che
era morto, ma non mi ha specificato i dettagli, non ha parlato del
carcere, non se la sentiva. In quel momento ha accennato solo a
mancanze nei soccorsi. Mia moglie era in giardino, gliel’ho dovuto
riferire io. Non sai cosa significa dire una cosa del genere a una
madre… Ho cominciato a sapere tutta la storia pochi giorni dopo. Poi,
dopo altro tempo ancora, è stata sempre Gioia a dirmi "adesso devo
raccontarti tutto". Mi ha parlato dell’autopsia, dei 4 ematomi
cerebrali, dei danni al fegato e alla milza. In quel momento si diceva
pure di due costole rotte, circostanza che però sembra essere stata
smentita dall’autopsia successiva. Nel frattempo erano cominciati i
contatti con Roberta, la sua compagna (arrestata assieme a lui e
scarcerata subito dopo la morte di Aldo), e la nostra battaglia comune
per capire cosa fosse successo in quella cella.

Ti sei fatto qualche idea su quanto accaduto?

Ho due ipotesi. Forse i suoi carcerieri pensavano davvero di
trovarsi di fronte a uno spacciatore. Non avendo trovato denaro in casa
di Aldo e Roberta (la perquisizione aveva raccolto solo trenta euro),
hanno pensato avessero nascosto "il malloppo" da qualche parte. Per
questo può darsi l’abbiano malmenato, per farlo confessare. L’altra
ipotesi si basa sull’idiosincrasia di mio figlio verso strutture chiuse
come il carcere. Aldo era molto tranquillo e aperto di carattere, ma
incapace di comportamenti servili e non incline al rispetto delle
gerarchie. In un ambiente chiuso e codificato come dev’essere il
carcere si crea quella subordinazione che pretende ritualità, rispetto
ossequioso verso gli ordini: una realtà impossibile per lui. Magari
questo l’ha portato a qualche reazione e di conseguenza può essere
scattata la voglia di dargli "una lezione".

Cosa puoi dirmi sullo stato delle indagini?

Il magistrato che aveva in mano l’inchiesta era lo stesso che l’ha
fatto arrestare. Un arresto che considero assurdo non solo per
l’assoluta mancanza di pericolosità di persone come Aldo e Roberta, ma
anche perché avvenuto di venerdì pomeriggio, costringendo quindi due
persone a restare in carcere inutilmente per almeno tre giorni. Tutto
questo senza poter vedere un giudice e chiarire la loro posizione, e
per di più lasciando Rudra e la nonna (ossia il figlio quattordicenne
di Aldo e Roberta, e una novantenne in precarie condizioni di salute)
completamente isolati e abbandonati a se stessi. Sulla sua morte è
stata chiesta l’archiviazione, a cui si è opposta tutta la famiglia,
coi rispettivi avvocati. Non so cosa aspettarmi delle indagini, seppure
da ignorante in materia legale ci vedo troppi buchi. Io pensavo che in
un carcere, almeno nei corridoi e nei luoghi di passaggio, ci fosse una
vigilanza costante, anche tramite telecamere, eppure ancora oggi non si
sa chi sia entrato e uscito da quella cella. Prima abbiamo accennato a
incongruenze nelle autopsie e voglio farti un esempio specifico. Le
lesioni al fegato le hanno giustificate con una manovra di rianimazione
maldestra, fatta con imperizia e troppa violenza. Ammesso che si possa
credere a questa versione, è possibile che non si sappia chi ha operato
quel tentativo di soccorso?

Alla fine si sta facendo strada la teoria di una morte per cause
naturali, per rottura aneuristica. Inoltre, si è parlato molto
dell’assenza di lesioni esterne…

L’aneurisma è un elemento di debolezza del sistema circolatorio, che
può starsene tranquillo per anni e poi cedere. Cosa posso dirti?…
Forse per deformazione professionale da vecchio chimico ragiono in
termini pratici, di impianti. Alla Thyssen Krupp l’impianto faceva
schifo, ma è successo qualcosa che l’ha fatto scoppiare. Ecco, anche
volendo credere all’aneurisma, io sono alla ricerca di quel "qualcosa".
Nulla capita per caso. Sulla mancanza di segni esteriori, tu pensi ci
siano lesioni esterne nei prigionieri di Guantanamo? O sui corpi dei
poveracci passati nelle mani di Videla o Pinochet per poi essere
scaricati in mare?

La storia di tuo figlio mi ricorda un panorama in cui la nebbia
prima si dirada e poi si riaddensa. Ci parla di una zona grigia nello
stato dei diritti, favorita dall’intreccio tra retorica securitaria e
guerra al diverso.

In questi tempi si fa un gran parlare di sicurezza, peraltro
cercando di distorcere la scala di importanza dei fatti. Quando si
parla di sicurezza e legalità non si parla dei morti sul lavoro, che
sembrano confinati in un altro pianeta, e neppure dei grandi
truffatori, che non sembrano destare quello che oggi viene chiamato
"allarme sociale". Intendiamoci, capisco che il ladro che ruba la
pensione alla vecchietta che l’ha appena ritirata sia un problema reale
e da affrontare, ma non capisco quale allarme possa essere determinato
da uno che si fa uno spinello. Chi vive alle nostre spalle rubando
miliardi o guadagnandoli in modo poco pulito, al contrario, non è
considerato pericoloso. Tu mi parli di nebbia e di zona d’ombra ed è
corretto; io, al di là del dolore personale, la storia di mio figlio
l’ho vissuta come un’enorme contraddizione. Una contraddizione di
quello che una volta avremmo chiamato "il sistema".

La vicenda di Aldo ti ha creato un’idea in generale del mondo
carcerario? E come è cambiata, se è cambiata, la tua visione della
giustizia?

Cosa penso del carcere? Che è una cosa diversa se ti chiami Geronzi
o Bianzino. Può sembrare banale ma è così, è quel che sento. Quando
oggi leggo di tragedie successe nei CPT, di persone malmenate o morte
"in circostanze misteriose", come si dice, provo la stessa sensazione:
carceri e CPT sono luoghi dove la persona perde i propri diritti. Per
questo è facile che lì dentro certe cose succedano, ed è difficile poi
scoprire la verità. E parlo di due luoghi che a torto si pensa debbano
tutelare solo chi sta fuori da chi vi è imprigionato. E’ falsissimo:
carcere e CPT dovrebbero tutelare pure chi sta dentro. Questo perché
anche chi viene rinchiuso in una di quelle strutture è sotto la tutela
dello Stato. Tutti, ma a maggior ragione quelli che, come Aldo, sono
reclusi senza aver subito una condanna e quindi vanno considerati
innocenti fino all’emissione della sentenza. Del resto ne abbiamo
parlato prima: quando si parla di sicurezza si parla di una sicurezza
monca e ambigua. Le morti in carcere sono tantissime. Non parliamo di
quelle nei CPT, visto che quei poveracci ormai sembrano appartenere a
una categoria subumana. Non parliamo di Carlo Giuliani: per lui hanno
ripristinato la pena di morte, direttamente in piazza. Una volta
avremmo parlato di "giustizia di classe": forse dovremmo avere il
coraggio di dirlo anche oggi…

Francesco "baro" Barilli

http://www.reti-invisibili.net/morticarceri/articles/art_13436.html

 

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