Lettera del padre di Aldo Bianzino

Gentilissimo Direttore,

Il caso recente di
Stefano Cucchi e, quello ancor più recente, di Giuseppe Saladino a
Parma (Il Manifesto dell’11 novembre), hanno richiamato l’attenzione
sui casi di Marcello Lanzi e di mio figlio Aldo Bianzino, anch’essi
morti in carcere in circostanze tutte da chiarire (chissà quando e
sopratutto se). Ora, volendo esaminare il caso di Aldo, bisogna
precisare alcune cose.

Il P.M. dott. Giuseppe
Petrazzini, che aveva fatto arrestare Aldo e la sua compagna la sera
del venerdì 12 ottobre 2007, è lo stesso magistrato che ha in
carico le indagini sul suo successivo decesso avvenuto nella notte
tra il 13 e il 14, Aldo era stato messo in cella di isolamento nel
carcere "Capanne" di Perugia. Era stato visto da un medico,
che l’aveva riscontrato sano e da un avvocato d’ufficio, col quale
aveva parlato verso le 17 di sabato. Non sono disponibili
registrazioni di telecamere su ciò che è avvenuto successivamente,
né, dopo il decesso, la cella risulta sia stata isolata e sigillata,
né che siano stati chiamati per un intervento i reparti speciali di
indagine dei carabinieri. A detta degli altri detenuti del reparto,
durante la notte Aldo aveva suonato più volte il campanello
d’allarme ed aveva invocato l’assistenza di un medico, sentendosi
anche, pare, mandare al diavolo dall’assistente del corridoio, la
guardia carceraria Gian Luca Cantore, attualmente indagato. Fatto sta
che verso le 8 del mattino di domenica le due dottoresse di turno,
arrivate a svolgere il loro turno di servizio, trovarono il corpo di
Aldo, con indosso solo un indumento intimo (e siamo a metà ottobre,
non ad agosto). I suoi vestiti si trovavano nella cella,
accuratamente ripiegati (cosa che Aldo, in 44 anni, non aveva fatto
mai). Le due dottoresse provarono di tutto per rianimarlo, ma alla
fine dovettero desistere: Aldo era morto. L’autopsia, svoltasi il
giorno dopo, diede risultati controversi: si parlò prima di due
vertebre poi di due costole, rotte, poi tutto fu negato. Di certo ci
fu un’emorragia celebrale e un’altra di 200 ml., al fegato. Segni
esterni di percosse o violenze, nessuno (i professionisti sanno come
si fa C.I.A. insegna). Ora, l’emorragia cerebrale è stata amputata
ad un aneurisma, quella epatica ad un maldestro tentativo di
respirazione artificiale, che le due dottoresse respingono nel modo
più assoluto (e ci mancherebbe, si tratta di medici, mica di
personale non qualificato), ma nessun altro ha affermato d’aver fatto
tentativi in tal senso. Ora, può accadere quando si è nelle mani
delle "forze dell’ordine", lo abbiamo purtroppo visto in
molti casi, basterebbe pensare al G8 di Genova, e magari al colloquio
recentemente intercettato nel carcere di Teramo (i detenuti non si
massacrano in reparto, ma sotto!). L’emorragia cerebrale potrebbe
benissimo essere stata la conseguenza di uno stress per colpi
ricevuti in altre parti del corpo, immaginatevi l’angoscia e il
terrore di una persona in quelle condizioni. In ogni caso credo
proprio di poter dire in tutta coscienza che Aldo è stato
assassinato in un ambiente violento e omertoso, del quale non si
riesce neppure a sapere i nomi del personale presente quella notte
nel carcere. Quanto al dott. Petrazzini, mi sembra che dignità gli
imporrebbe di passare ad altri il suo incarico, date le omissioni,
invece di insistere come sta facendo, per ottenere l’archiviazione
del caso.

Ma i veri assassini sono
coloro che hanno voluto ed ottenuto una legge sulle "droghe"
come l’attuale, persone che nella loro profonda ignoranza,
considerano in modo globale, senza distinzioni. Una legge fascista e
clericale, da stato etico e peggio, da stato che manda in galera (con
le conseguenze che si sono viste) il poveraccio che coltiva per uso
personale qualche pianta di cannabis, mentre, se la droga (quella
pesante, cocaina o altre sostanze) circola nei festini dei potenti,
non succede nulla. Vorrei dire comunque che un paese che considera
delitto la detenzione e l’uso di droghe, magari solo marijuana, o
l’essere "clandestino", pur non avendo colpe e quasi sempre
per sfuggire a condizioni di vita impossibili, uno stato che avendo
preso in custodia delle persone, è responsabile a tutti gli effetti
delle loro vite e della loro salute, uno stato che non riconosce come
reato gravissimo la tortura, uno stato che difende i forti e i
potenti e non i deboli, è uno stato che non può ritenersi civile e
non può chiedere ai suoi cittadini (o sudditi?) di amare la propria
patria.

In fede

Giuseppe Bianzino

Vercelli, 16 novembre
2009

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Storie di ordinaria violenza

STORIE DI ORDINARIA VIOLENZA

All’alba del 25 settembre del 2005, il diciottenne Federico Aldrovandi muore a Ferrara, pochi minuti dopo essere stato fermato dalla polizia. La storia di Federico sarebbe semplicemente questa, se una madre veramente coraggiosa non avesse aperto un blog per battersi per una giustizia negata. Da quel blog e da un lavoro di inchiesta di tre anni nasce Zona del silenzio.


Checchino Antonini

presenta il libro

Zona del silenzio

Una storia di ordinaria violenza italiana

di Checchino Antonini e Alessio Spataro

Martedì 10 Novembre 2009
Aula 1 della Facoltà di Scienze Politiche -Perugia-
ore 17.00

Il caso di Federico è troppo simile a quello di Aldo Bianzino arrestato il 12 ottobre 2007 e condotto nel carcere di Capanne di Perugia dove la mattina del 14 viene trovato morto, come lo è quello di Stefano Cucchi ucciso a Roma lo scorso 22 Ottobre, Nicola Tommasoli a Verona, Abdul Guibre a Milano, Manuel Eliantonio a Genova, Riccardo Rasman a Trieste, Marcello Lonzi a Livorno, Alberto Mercuriali e tanti altri, tutti vittime di “ordinaria violenza” in carcere come in strada, contro chi gira senza documenti, chi rivendica la propria libertà d’ espressione, chi fuma marijuana, chi…

Per tutti questi casi vogliamo Verità e Giustizia e continueremo a contrastare e ad opporci ad una società che sempre meno tollera qualsiasi comportamento fuori dalla norma.

Perchè di carcere non si può morire!

Comitato Verità Per Aldo

http://veritaperaldo.noblogs.org

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Milano: 50 striscioni per non dimenticare Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino

Fermiamo il delirio securitario, diritti sicuri subito.

Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino: il proibizionismo è un serial killer



Cinquanta
gli striscioni appesi nella notte in tutta Milano, per non dimenticare
la morte inacettabile di Stefano Cucchi, per denunciare l’assurdità di
questo clima securitario fatto di diritti negati, proibizionismo e
razzismo. Prosegui la lettura »

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MORIRE DI CARCERE

 

L’EBANISTA TRANQUILLO CHE ASPETTA GIUSTIZIA

di Luca Cardinalini – PERUGIA

44
anni, gandiano. Viveva con la sua famiglia in un casolare in mezzo ai
boschi. viene arrestato nel 2007 per produzione di marjuana. Muore dopo
due giorni in carcere. Gli amici chiedono verità. L’11 dicembre decide
il gip

«La morte in carcere di un detenuto rappresenta
un’evenienza sempre possibile. La morte "di carcere" costituisce invece
uno degli eventi che danno la misura di quanto in uno Stato siano o
meno rispettati i diritti dell’uomo. Ciò spiega perché di fronte alla
morte di un detenuto si impongano verifiche dettagliate e puntuali,
tali da non consentire che permangano margini di dubbio». Lo scrive il
gip del tribunale di Perugia, Massimo Ricciarelli, ordinando ulteriori
indagini riguardo alla morte di Aldo Bianzino, avvenuta il 14 ottobre 2007. Prosegui la lettura »

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Aldo e Stefano, due storie simili non solo nella morte

di Emanuele Giordana

Arresto per droga, omissione di soccorso, e infine la morte. L’unica differenza è geografica
La morte in carcere ha sempre un comun denominatore: la reticenza e i
contorni oscuri in cui è avvenuta e sui quali è sempre difficile far
luce. Ma nella vicenda di Stefano Cucchi le analogie con un altra morte
sospetta sono così numerose e l’iter investigativo così simile, da far
pensare a una tragica fotocopia. Molti giornali e molti osservatori
hanno recentemente ricordato la vicenda di Aldo Bianzino,
un ebanista di Pietralunga che entrò in carcere una sera di ottobre per
uscirne cadavere due giorni dopo. L’articolo qui sopra che ricorda
quella storia mette in luce un iter terribilmente simile, fatte le
dovute differenze, con quello della vicenda di Stefano Cucchi. Due
arrestati per possesso di sostanze stupefacenti muoiono in prigione. In
entrambi i casi si guarda agli agenti di polizia penitenziaria e alla
possibile ricostruzione dei vicini di cella, questi ultimi – come ha
rilevato nella sua visita a Regina Coeli il senatore Stefano Pedica –
intimiditi dalla possibilità di rappresaglie. Prosegui la lettura »

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